La mia isola è Las Vegas
Esce postumo questo La mia isola è Las Vegas (Mondadori, 2012), l'ultimo libro, personalmente concepito e voluto dall'ultimo dei grandi siciliani, Vincenzo Consolo. Si tratta di un'ampia raccolta di racconti e prose narrative (52 per l'esattezza) che coprono un arco di più di cinquant'anni, dai primissimi esordi fino al 2011 (con qualche inedito ripescato dall'archivio dello scrittore). Stretto parente dell'altro grande libro di racconti consoliani (Le pietre di Pantalica, 1988), per la volontà di raccontare d'una civiltà sepolta, quella del mondo contadino colto al suo tramonto, per l'accendersi del racconto a partire dai luoghi della memoria, per quella voglia viscerale di percorrere e ripercorrere, possedere ogni angolo dell'Isola, oltre a testimoniare il profondo scavo da cui sono nati tutti i suoi libri maggiori (e qui troviamo non pochi incunaboli di Retablo, del Sorriso, di Nottetempo, dello Spasimo), il vero motivo d'interesse sta oggi nella possibilità di leggere tranquillamente questa silloge insieme come un'autobiografia intellettuale e come segno del suo personale manierismo sperimentale (mi si passi l'apparente ossimoro).
Esce postumo questo La mia isola è Las Vegas (Mondadori, 2012), l'ultimo libro, personalmente concepito e voluto dall'ultimo dei grandi siciliani, Vincenzo Consolo. Si tratta di un'ampia raccolta di racconti e prose narrative (52 per l'esattezza) che coprono un arco di più di cinquant'anni, dai primissimi esordi fino al 2011 (con qualche inedito ripescato dall'archivio dello scrittore). Stretto parente dell'altro grande libro di racconti consoliani (Le pietre di Pantalica, 1988), per la volontà di raccontare d'una civiltà sepolta, quella del mondo contadino colto al suo tramonto, per l'accendersi del racconto a partire dai luoghi della memoria, per quella voglia viscerale di percorrere e ripercorrere, possedere ogni angolo dell'Isola, oltre a testimoniare il profondo scavo da cui sono nati tutti i suoi libri maggiori (e qui troviamo non pochi incunaboli di Retablo, del Sorriso, di Nottetempo, dello Spasimo), il vero motivo d'interesse sta oggi nella possibilità di leggere tranquillamente questa silloge insieme come un'autobiografia intellettuale e come segno del suo personale manierismo sperimentale (mi si passi l'apparente ossimoro).
A principiare dalla scrittura ibrida, praticata con
straordinaria disinvoltura, a mezzo tra immediata restituzione narrativa
e intenzioni saggistiche, di ricognizione storico-sociale, lontano dai
mascheramenti dei suoi grandi affreschi metaforici, pur senza rinunciare
al tono d'una voce che rimane riconoscibilissima. Ma il poter leggere
in sequenza queste storie ci dice, e molto, sul trattamento cui Consolo
sottopone, ricorsivamente, il dato memoriale di partenza: la sua è
memoria personale che brucia, combustibile utile a ricostruire il più
ambizioso e ampio mosaico, d'una memoria culturale, storica, erudita, in
una parola "archeologica" (si legga per esempio il racconto La grande
vacanza orientale-occidentale). Inconcepibile, per il nostro, questo si
vuol significare, fermarsi al nudo recupero di memoria, se esso non
viene elevato, reso per così dire necessario, dall'aggancio alla storia,
al "contesto" di sciasciana memoria, benedetto dal civile comandamento
dell'utile, dell'etico, dell'exemplum. Anche il ricordo del paese natale
(Ritorno al paese perduto, E poi la festa del patrono, Natali
sepolti,Il mare) sembra cristallizzarsi, ergersi al rango di topos
narrativo, per il frequente richiamare, in svariati racconti quivi
radunati, le medesime spie memoriali (la marina e il castello, i giochi
d'infanzia, le feste), per non dire poi dell'archetipo del viaggio (una
costante in tutto Consolo), di luoghi rimembrati da un io adulto, a
rintracciare, nel fondo dei ricordi, i germi di un'imminente e
inevitabile catastrofe, dell'ennesima disfatta sociale e culturale. Così
come cristallizzata appare la cartolina (più volte riproposta)
dell'approdare nella sua adottiva e amata-odiata Milano, da
universitario prima (al convitto della Cattolica, a piazza
Sant'Ambrogio, a due passi dal vicino Centro Orientamento Immigrati,
alla pensione della signorina Colombo, con i suoi compagni di cursus che
sarebbero stati in futuro classe dirigente e sfascista del nostro
Paese), poi da giornalista della Rai, da scrittore militante (Grandi
carriere di vecchi amici, La pallottola in testa). Veri e propri
canovacci, reperti narrativi da montare e rimontare, input memoriali
utili a oggettivare il ricordo; sicché il privato dello scrittore possa
rimandare al vissuto di un qualunque suo coetaneo emigrato, magari meno
fortunato, ma proveniente da analogo contesto geografico e sociale, nel
cruciale momento dell'estinguersi della civiltà contadina,
dell'emigrazione di massa, ai tempi della grande "mutazione
antropologica" (secondo la definizione che ne diede Pasolini). Necessità
di ricucire, dilatare sempre la memoria personale, facendola lievitare,
nella sua eco profonda di senso, alla dignità di racconto non più solo
privato ma collettivo, spendibile per una lettura dei piani storici in
gioco, nel trascorrere dalla microstoria alla storia con la S maiuscola
(più di un'ammissione, il finale di La testa tra i ferri della
ringhiera, palese descrizione del suo modus operandi, proprio sul piano
del recupero memoriale). E dentro questa topografia polare (la Sicilia e
l'esilio di Milano, la natura e la cultura, il racconto e la poesia, lo
scrivere e il narrare) è da ricercare, come suggerisce al lettore,
anche in questi racconti, con insistenza, lo stesso Consolo, la cellula
generativa, il DNA da cui si diparte la sua formazione umana e
culturale. Non meno caratterizzata da un gioco d'opposti, fortemente
ancorata a una spiegazione di carattere storico, è la declinazione della
ibrida geografia che Consolo traccia per indicare la specificità della
sua voce autoriale, nato in una finisterre, sul correre del confine tra
un oriente e un occidente (che «non si nasce in un luogo impunemente»,
aveva già ricordato in Di qua dal faro), le ragioni della natura e
quelle della storia, e dove, in assenza d'ogni metafisica consolazione,
come antidoto alla caduta esistenziale, non può che volgere lo sguardo
al contingente, al relativo (Memorie); epperò trovando proficuo
incontro, ricomposizione, quelle due anime, nel miracolo d'uno stile che
ha sempre tentato di coniugare, in sintesi, la radice illuminista e
quella barocca, le commiste eredità di Piccolo e Sciascia (Piccolo
grande Gattopardo).
E come tacere poi della visione tragica della storia per cui quello del narratore-viaggiatore è sempre un aggirarsi tra le macerie d'una Troia perennemente assediata e distrutta (si leggano le Macerie di Palermo o Il disastro storico), «infinita teoria di rovine» (immediata l'associazione con l'Angelus Novus di Klee nella celebre ecfrasi, sotto il segno della tempesta del progresso, fatta da Benjamin); senso tragico che agisce, come presagio, non di rado, anche nelle notazioni paesaggistiche. In chiusura, troviamo un raccontino, La meraviglia del cielo e della terra, ultimo scritto in ordine di tempo, che, ancora una volta in chiave poetico-narrativa, allusivamente doppia e sintetizza la cifra di quella preziosa Bildung poetico-linguistica già felicemente espressa ne I linguaggi del bosco, il racconto-manifesto de Le pietre di Pantalica che aveva, al suo uscire, stimolato la riflessione critica di un altro grande instancabile sperimentatore come Andrea Zanzotto. Da tutto ciò cosa se ne deduce?
La mia isola è Las Vegassi offre, in definitiva, al lettore, come concentrata epitome dei tasselli di cui si compone il romanzo, l'autobiografia intellettuale dello scrittore siciliano. Vincenzo Consolo ha sempre contrabbandato il racconto della sua formazione culturale e storico-politica come si trattasse di un calcolo perfetto, un teorema nato già dimostrato, dal sapore dell'incontrovertibile assioma, anche per il critico. Eppure, per averlo conosciuto, scrutato, ascoltato, sotto questo equilibrismo perfetto, c'è sempre stato un diaframma, un qualcosa di irrisolto: il gliommero di dentro fatto di «mutilazioni e nostalgie», di una qualche ferita incancellabile. È forse ora maturo il tempo di provare a scardinare, decostruire questo romanzo, gettando lo sguardo su quella ferita sotto il segno della quale aveva esordito.
"Niente stoffe leggere" (Priamo-Meligrana, 2013), pp. 51-53
Domenico Calcaterra
E come tacere poi della visione tragica della storia per cui quello del narratore-viaggiatore è sempre un aggirarsi tra le macerie d'una Troia perennemente assediata e distrutta (si leggano le Macerie di Palermo o Il disastro storico), «infinita teoria di rovine» (immediata l'associazione con l'Angelus Novus di Klee nella celebre ecfrasi, sotto il segno della tempesta del progresso, fatta da Benjamin); senso tragico che agisce, come presagio, non di rado, anche nelle notazioni paesaggistiche. In chiusura, troviamo un raccontino, La meraviglia del cielo e della terra, ultimo scritto in ordine di tempo, che, ancora una volta in chiave poetico-narrativa, allusivamente doppia e sintetizza la cifra di quella preziosa Bildung poetico-linguistica già felicemente espressa ne I linguaggi del bosco, il racconto-manifesto de Le pietre di Pantalica che aveva, al suo uscire, stimolato la riflessione critica di un altro grande instancabile sperimentatore come Andrea Zanzotto. Da tutto ciò cosa se ne deduce?
La mia isola è Las Vegassi offre, in definitiva, al lettore, come concentrata epitome dei tasselli di cui si compone il romanzo, l'autobiografia intellettuale dello scrittore siciliano. Vincenzo Consolo ha sempre contrabbandato il racconto della sua formazione culturale e storico-politica come si trattasse di un calcolo perfetto, un teorema nato già dimostrato, dal sapore dell'incontrovertibile assioma, anche per il critico. Eppure, per averlo conosciuto, scrutato, ascoltato, sotto questo equilibrismo perfetto, c'è sempre stato un diaframma, un qualcosa di irrisolto: il gliommero di dentro fatto di «mutilazioni e nostalgie», di una qualche ferita incancellabile. È forse ora maturo il tempo di provare a scardinare, decostruire questo romanzo, gettando lo sguardo su quella ferita sotto il segno della quale aveva esordito.
"Niente stoffe leggere" (Priamo-Meligrana, 2013), pp. 51-53
Domenico Calcaterra
Certamente Consolo è uno tra gli scrittori più originali e autorevoli della cultura italiana degli ultimi decenni.
RispondiEliminaIl lettore che si accosta per la prima volta a Consolo scopre una lingua intrisa di storia e un ritmo di prosa assolutamente musicale.
Consolo ha vissuto a Milano ma non ha mai smesso di fare l'occhiolino alla sua Sicilia, ha scardinato pezzi storia per mettere uno sull'altro mattoni nel presente, ha usato parole antiche per sperimentarne di nuove.
Studiai Consolo ai tempi dell'università e ricordo particolarmente la sua personalità e uno dei suoi racconti:"Le pietre di Pantalica".
Ritengo questa di "La mia terra è Las Vegas" un'ottima recensione.
L.I.